La Stella Polare è ben nota dal punto di vista puramente visivo (se perdonate il bisticcio di parole), da millenni guida dei navigatori lungo rotte più o meno conosciute. Ma resta molto su cui indagare riguardo le sue reali, intrinseche caratteristiche fisiche.
Ubicato a 430 anni luce dalla Terra, questo faro dell’umanità sulla volta celeste non è una stella ordinaria ma una variabile cefeide, stelle la cui luminosa varia secondo periodi regolari, una sorta di pulsazione. Henrietta Swan Leavitt scoprì, nel 1912, che esiste una relazione ben precisa fra il periodo e la luminosità e gli astronomi furono così per la prima volta in grado di misurare le distanze cosmiche su grande scala superando i limiti posti dai sistemi di calcolo applicabili solo su distanze ravvicinate, come il metodo della parallasse.
Lo stesso Edwin Hubble determinò tramite le osservazioni con il telescopio Hooker di Monte Wilson, risolvendo definitivamente il grande dibattito di quegli anni (nebulosa interna alla Via Lattea o qualcosa di esterno e quindi molto, molto grande?), che Andromeda era una galassia esterna alla Via Lattea: una conferma rivoluzionaria non solo poiché gettava un primo sguardo sulle reali dimensioni dell’universo ma anche la scoperta che l’universo non era stazionario ma in espansione.
A causa dell’oscillazione dell’asse terrestre, fra 12000 anni a indicare il nord sarà un’altra stella: Vega
Ed è sempre installato sul Monte Wilson il Center for High Angular Resolution Astronomy (CHARA Array), una schiera di sei strumenti che uniti formano l’equivalente di un telescopio da 330 metri (un interferometro ottico). La luce da loro catturata viene poi raccolta da uno strumento chiamato MIRC-X in grado di combinare i dati delle sei fonti.
Quella che chiamiamo Stella Polare è poi in realtà un sistema formato da tre stelle: oltre alla principale, Polaris A, vi sono Polaris B, scoperta da William Herschel già nel 1780, e Polaris Ab, la cui scoperta è avvenuta per via spettroscopica nel 1929 e risolta (visualizzata separatamente dalla stella principale) dal telescopio spaziale Hubble solo nel 2006: il nuovo studio era finalizzato alla mappatura dell’orbita proprio di questa stella, poco più grande del nostro Sole, che impiega 29,6 anni per girare intorno a Polaris A.
“La piccola separazione e il grande contrasto di luminosità tra le due stelle rendono estremamente difficile risolvere il sistema binario durante il loro avvicinamento più estremo” spiega la dottoressa Nancy Evans del Centro per l’astrofisica di Harvard-Smithsonian.
Il fenomeno rilevato sulla superficie di Polaris potrebbe avere un’origine diversa rispetto alle note macchie solari
I risultati dell’osservazione, che si basa su dati raccolti fra il 2016 e il 2021, hanno permesso di tracciare l’orbita della compagna e di calcolare le dimensioni della Stella Polare stessa: una massa pari a cinque volte quella del Sole a fronte di un diametro 46 volte superiore. E CHARA ha permesso di gettare un primo sguardo sulla sua superficie.
“Le immagini del CHARA hanno rivelato grandi macchie luminose e scure sulla superficie della Stella Polare che sono cambiate nel corso del tempo” afferma in una nota Gail Schaefer della Georgia State University, direttrice del CHARA Array.
La stella variabile Polaris A cresce e si restringe in cicli di quattro giorni, tuttavia in base alle osservazioni il variare di questo aspetto maculato pare legato a cicli di 120 giorni. “Abbiamo in programma di continuare a riprendere Polaris in futuro. Speriamo di comprendere meglio il meccanismo che genera le macchie sulla superficie di Polaris” commenta l’astronomo John Monnier, fra gli autori dello studio.
La ricerca The Orbit and Dynamical Mass of Polaris: Observations with the CHARA Array è stata pubblicata su The Astrophysical Journal (20 agosto 2024)
DOI:10.3847/1538-4357/ad5e7a
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