Scoperto dal telescopio spaziale Hubble, la sua designazione ufficiale è SPT0615-JD1, ma questo insieme di oggetti distante 13,3 miliardi di anni luce dalla Terra è oggi meglio noto con l’appropriatamente evocativo nome di “Arco delle Gemme Cosmiche”; qui gli astronomi hanno ora scoperto degli oggetti ancora più antichi risalendo a 13,8 miliardi di anni fa, ovvero la luce che oggi vediamo giunge a noi da quando l’universo aveva solo il 3% della sua età attuale.
Si tratta di cinque giovani ammassi stellari massicci, i primi scoperti in una galassia neonata (erano passati appena 460 milioni di anni dal Big Bang) che esistevano quando le giovani galassie stavano attraversando un periodo di intense esplosioni di formazione stellare emettendo enormi quantità di luce ultravioletta, radiazione che potrebbe essere responsabile dell’innesco di una delle due fasi principali nell’evoluzione dell’universo: quella che viene chiamata epoca della reionizzazione cosmica e gli astronomi potranno accrescere le conoscenze riguardo questo primo periodo.
“La sorpresa e lo stupore sono stati incredibili quando abbiamo aperto le immagini del JWST per la prima volta. Abbiamo visto una piccola catena di punti luminosi specchiati da un lato all’altro: queste gemme cosmiche sono ammassi stellari! Senza il JWST non avremmo saputo che stavamo osservando ammassi stellari in una galassia così giovane!” commenta Angela Adamo dell’Università di Stoccolma e del Centro Oskar Klein in Svezia, leader del team di ricercatori.
Gli ammassi sono dotati di notevole massa e densità, superiori rispetto agli oggetti analoghi vicini.
In seguito all’energia fornita dai primi corpi celesti in formazione, stelle, galassie, quasar, buchi neri primordiali, l’energia divenne sufficiente a causare il rilascio di ioni dall’idrogeno, portando la luce nell’universo. Gli ammassi stellari la cui scoperta è stata annunciata pur occupando una piccola regione della loro galassia sono responsabili della maggior parte del totale della luce ultravioletta proveniente dalla galassia stessa. Ammassi come questi potrebbero quindi essere stati i principali motori della reionizzazione.
Con lo studio di questo fenomeno è possibile per gli astronomi apprendere di più sui processi dietro la formazione della struttura dell’universo su larga scala, rivelare come la distribuzione della materia straordinariamente uniforme durante i primi tempi della vita del cosmo si sia mutata nell’universo altamente strutturato di galassie che i ricercatori possono osservare nelle epoche successive.
I cinque antichi ammassi potrebbero nello specifico fornire un’occasione unica per comprendere i meccanismi dietro la formazione e la distribuzione delle stelle nelle primissime fasi dell’universo e il loro funzionamento interno.
“L’incredibile sensibilità e la risoluzione angolare del JWST alle lunghezze d’onda vicine all’infrarosso combinate con la lente gravitazionale fornita dal massiccio ammasso di galassie in primo piano hanno permesso questa scoperta” spiega Larry Bradley, leader del programma di ricerca che ha condotto alla scoperta.
Che senza la combinazione fra le capacità del telescopio James Webb e l’effetto lente gravitazionale non sarebbe stata possibile: secondo la relatività generale gli oggetti dotati di massa deformano il tessuto dello spaziotempo e naturalmente più grande è la massa maggiore sarà la deformazione.
La luce proveniente da sorgenti che dal nostro punto di vista si trovano dietro una tale deformazione risulta da essa curvata, e più la luce si avvicina all’oggetto deformante più il suo percorso diventa curvo. Quindi la luce proveniente da un singolo oggetto può mostrarsi a un osservatore contemporaneamente in punti e momenti all’apparenza diversi. Cosa più importante, la luce risulta amplificata e l’oggetto ci sembra più grande grazie a questo effetto che infatti è chiamato lente gravitazionale.
L’effetto lente gravitazionale, oggi strumento di ricerca pratico, era previsto nella teoria della relatività di Einstein
Per ottenere un effetto utile serve una massa davvero importante e in questo caso a fungere da lente è a sua volta proprio un altro ammasso di galassie, SPT-CL J0615−5746, che ci permette di osservare le Gemme Cosmiche, i loro ammassi stellari e due distanti galassie lenticolari che altrimenti ci sarebbero invisibili a causa dell’enorme distanza. Possono invece essere studiate fin nel dettaglio.
Gli stessi conglomerati sferici chiamati ammassi globulari, ben noti e presenti anche nella nostra galassia, mantengono un alone di mistero: gli astronomi sono ancora incerti su come queste stelle strettamente legate gravitazionalmente si uniscano in un ammasso, ma proprio gli ammassi stellari nell’arco delle Gemme Cosmiche, giovani e massicci, potrebbero trovarsi nelle fasi iniziali della propria esistenza e costituire una finestra da cui osservare le prime fasi della loro nascita.
Ma questi cinque ammassi potrebbero aiutare a far luce su ulteriori misteri dell’evoluzione dell’universo, spiega Adamo: “Le elevate densità stellari trovate negli ammassi ci forniscono la prima indicazione sui processi che avvengono al loro interno, fornendo nuove informazioni sulla possibile formazione di stelle molto massicce e semi [precursori] di buchi neri, che sono entrambi importanti per l’evoluzione delle galassie”.
Le prossime osservazioni con lo strumento NIRSpec (Near Infrared Spectrograph) e MIRI (Mid-Infrared Instrument) del James Webb Space Telescope consentiranno ai ricercatori di confermare lo spostamento verso il rosso della galassia, di analizzare l’emissione ultravioletta degli ammassi stellari, che fornirà informazioni più dettagliate sulle loro proprietà fisiche, e di studiare le proprietà del gas ionizzato.
Osservazioni che dovrebbero rivelare quanto fosse intensa la formazione stellare nei siti attivi di questa galassia neonata, mentre gli astronomi si metteranno alla ricerca di ulteriori ammassi stellari analoghi a questi cinque: “Sono fiducioso che ci siano altri sistemi come questo in attesa di essere scoperti nell’universo primordiale, permettendoci di approfondire la nostra comprensione delle galassie primordiali” conclude Eros Vanzella dell’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), fra gli autori dello studio.
La ricerca Bound star clusters observed in a lensed galaxy 460 Myr after the Big Bang è stata pubblicata lunedì sulla rivista Nature (24 giugno 2024)
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