Giuditta e Oloferne è un dipinto della pittrice italiana Artemisia Gentileschi realizzato fra il 1612 e il 1613. L’opera è esposta nel Museo Nazionale di Capodimonte di Napoli e rappresenta una sorta di narrazione della vicenda drammatica vissuta dall’artista. Donna capace di riscattarsi da violenze e pregiudizi, Artemisia ha scelto questo episodio biblico per esprimere la sua condanna sugli abusi sulle donne.
Descrizione dell’opera
Nell’opera, l’artista raffigura Giuditta mentre decapita Oloferne, aiutata dalla sua ancella. Il generale assiro, completamente ubriaco dopo il banchetto, è disteso nudo sul letto e attende Giuditta per giacere con lui. La donna, invece, afferra la sua spada e gli taglia la gola. Il generale appare steso su un letto con tre materassi messi uno sopra l’altro, con il corpo avvolto da un lenzuolo e una coperta rossa dal tessuto lucido.
Mentre il capo di Oloferne giace di traverso, Giuditta si trova in piedi, sulla destra della scena, mentre afferra i capelli del generale con la mano sinistra e con la destra infierisce sulla sua gola. La donna ha indosso un abito scollato, un bracciale con pietre verdi sul braccio sinistro e i capelli elegantemente raccolti a treccia.
Da notare la violenza della scena con il sangue che schizza proprio verso Giuditta, mentre sul letto scendono dei rivoli che macchiano i teli disposti sul materasso. Dal volto dell’ancella non traspare alcuna emozione, sembra invece determinata ad aiutare Giuditta nel suo compito.
Storia e interpretazione dell’opera
Esiste anche un’altra versione del capolavoro Giuditta e Oloferne e si trova esposta alla Galleria degli Uffizi. Pare infatti che l’artista abbia dipinto, oltre alla versione conservata al Museo Nazionale di Capodimonte, anche un’altra tela nel 1620 per Cosimo II dei Medici. La tela esposta al Capodimonte ha dimensioni minori e colori diversi rispetto a quella custodita agli Uffizi.
L’opera viene interpretata come una sorta di rivalsa da parte dell’artista per un episodio di stupro accadutole personalmente. La tela è stata dipinta proprio a ridosso del processo in cui Artemisia accusava Agostino Tassi (collaboratore del padre) di stupro, e per questo si presume che la crudezza della violenza espressa nel dipinto e la scelta del soggetto siano dovuti al desiderio di rivalsa dell’artista.
La Gentileschi ha raggiunto con successo il suo intento di rendere realistica la scena, e infatti nell’opera si nota l’abilità dell’artista di far percepire lo sforzo fisico nei movimenti dei personaggi. Nelle lenzuola disfatte si coglie la resistenza che l’uomo oppone all’aggressione.
Nel capolavoro di Artemisia è anche possibile scorgere l’influenza di Caravaggio. Sia nella scena cruda della decapitazione che nella postura di Giuditta, il dipinto ricorda moltissimo la Giuditta di Caravaggio esposta a Palazzo Barberini. L’unica differenza è che nell’opera di Artemisia c’è una sorta di intesa tra Giuditta e l’ancella, che da sole riescono ad avere la meglio sul nemico.
Questo è un altro importante dettaglio che ricorda la vicenda personale di Artemisia. Infatti, l’artista accusò Tullia, sua inquilina, di non averla soccorsa quando ha subìto lo stupro.