Imbattersi in un nuovo film d’animazione indipendente è sempre molto intrigante. Nel caso di Wolfwalkers – Il popolo dei lupi, poi, l’aspettativa era altissima, visto che si tratta del terzo capitolo di una trilogia ispirata al mondo celtico alla quale siamo molto affezionati. Dopo The Secret of Kells (2009) e La canzone del mare (2014), infatti, Tomm Moore ci riporta in Irlanda, questa volta affiancato da Ross Stewart alla regia e da Will Collins alla sceneggiatura.
Wolfwalkers è stato presentato al Toronto International Film Festival alla fine del 2020, ottenendo pareri molto positivi. In Italia, è disponibile su Apple tv+ dall’11 dicembre.
La trama
Robyn si è appena trasferita a Kilkenny insieme al padre, un cacciatore di lupi. È il 1650, è il Lord Protector vuole promuovere l’espansione della città irlandese distruggendo la foresta che vi sorge accanto. Un branco di pericolosi lupi è però contrario ai piani inglesi, e attacca i lavoratori che provano ad abbattere gli alberi.
Quando il padre si inoltra nella foresta a caccia di lupi, Robyn lo segue, decisa ad aiutarlo e a dimostrargli il suo valore. Imbattendosi però nella piccola e scalmanata Mebh e nel mondo dei Wolfwalkers, una realtà destinata a cambiare per sempre lei e tutti gli abitanti di Kilkenny.
Wolfwalkers: una storia di amicizia e di accettazione
Con Wolfwalkers, siamo davanti al terzo capolavoro di Moore. Disegni avvolgenti e colori brillanti, prospettive fantasiose e coinvolgenti musiche tradizionali sono gli ingredienti ai quali la saga ci aveva già abituato. Ma la storia di questo ultimo capitolo è forse la più attuale delle tre. Se The Secret of Kells parlava di crescita e di religione e e La canzone del mare affrontava il tema della famiglia, Wolfwalkers Il popolo dei lupi si concentra infatti sui temi dell’amicizia e dell’accettazione delle diversità.
Da un lato abbiamo Robyn, che sogna di diventare una cacciatrice di lupi, e dall’altro Mebh, una wolfwalkers, cresciuta proprio in mezzo a questi lupi. L’amicizia che si crea tra le due bambine è delicata, spontanea e bellissima, e sembra gridare a gran voce che conoscere l’altro e non “cacciarlo” è il modo giusto per convincerci. E per diventare la migliore versione possibile di sé stessi.
A contrastare la voglia di conoscere e di comprendere, vero nemico dell’intera storia, c’è la paura nella sua più atavica delle forme. Quella incarnata dal Lord Protector, simbolo di tradizionalità, di fede cieca, di ottusità; e quella altrettanto pericolosa sebbene più umana di Goodfellowe, il padre di Robyn, che per tutto il film si dimostra troppo terrorizzato dall’idea di perderla per comprendere il messaggio che la figlia cerca di trasmettergli.
Alla fine della pellicola, è l’infanzia in tutta la sua innocenza a prevalere sulle paure. E a insegnare al mondo degli adulti che se si apre il proprio cuore all’altro, e ci si affida a lui, nulla può andare davvero storto.