Titano, satellite di Saturno, desta da decenni l’interesse degli astronomi poiché si tratta dell’unica luna nel sistema solare dotata di una spessa atmosfera e quindi potenzialmente interessante anche per la ricerca di vita fuori dal nostro pianeta.
Ma cosa si nasconda sotto la coltre di nubi gassose che lo circonda abbiamo iniziato a vederlo e comprenderlo solo a partire dal 2004, col primo flyby della sonda Cassini che poi avrebbe sganciato il lander Huygens sulla sua superficie, ottenendo novanta minuti di preziose immagini e altri dati.
La missione di Cassini proseguì fino al 2017 con diversi passaggi ravvicinati presso il pianeta e altri satelliti, ma l’analisi dei dati è a tutt’oggi lontana dall’essere completata: risalgono infatti al 21 agosto 2014 i rilievi che permettono oggi di stabilire una profondità di ben 300 metri per il Kraken Mare, il più grande oceano sulla superficie di Titano, tanto da costituire l’80% del totale del liquido (idrocarburi, non acqua) presente sulla sua superficie.
La misurazione della profondità degli altri oceani era già stata effettuata, mancava il più esteso
Viaggiando a 21.000 km orari mille chilometri sopra la superficie di Titano, gli strumenti della sonda analizzarono il Kraken Mare e la baia ubicata nella parte settentrionale dell’oceano stesso, denominata Moray Sinus. I ricercatori della Cornell University e del Jet Propulsion Laboratory della NASA si sono basati su parametri quali la differenza nel tempo impiegato dalle onde radio dell’altimetro a bordo della Cassini per tornare indietro dalla superficie del mare rispetto al tempo necessario per fare altrettanto dal fondale; inoltre, la quantità di energia assorbita fornisce indicazioni riguardo la composizione del mare stesso.
Il risultato di 300 metri è stato più difficile da ottenere rispetto a quello del Moray Sinus, profondo 85 metri, proprio per la sua grandezza. Ma la sorpresa riguarda il fatto che il Kraken Mare presenti le stesse proporzioni di metano ed etano degli altri oceani come il Ligeia Mare più a nord (balzato agli onori della cronaca per il fenomeno dell’isola che scompare e riappare periodicamente); i ricercatori avevano invece ipotizzato una maggior presenza di etano, per via della più ampia estensione del Kraken Mare e della sua ubicazione, si estende più meridionalmente rispetto agli altri oceani.
Diverse ipotesi sulle future missioni su Titano sono in fase di studio
Questa nuova consapevolezza sul ciclo degli idrocarburi liquidi su Titano permetterà di meglio calibrare gli strumenti per le prossime missioni, come il sonar a bordo di un ipotetico sottomarino (presumibilmente privo di propulsione) che in futuro potrebbe essere inviato a esaminare l’oceano che ora sappiamo abbastanza profondo per questo genere di ricerca.
Uno degli enigmi da risolvere riguarda proprio l’origine del metano: l’energia del Sole presenta su Titano un centesimo dell’intensità che sperimentiamo sulla Terra, ma quanto basta per convertire a ciclo continuo il metano presente nell’atmosfera in etano, portando in teoria all’esaurimento delle riserve in appena (su scala astronomica) dieci milioni di anni.
Capire Titano significa comprendere casa nostra, poiché si ritiene nelle sue fasi iniziali la Terra stessa potesse presentare un analogo scenario di oceani, fiumi e laghi di metano allo stato liquido.
La ricerca “The Bathymetry of Moray Sinus at Titan’s Kraken Mare”, frutto di una collaborazione internazionale che include l’Università La Sapienza di Roma, è stata pubblicata sul Journal of Geophysical Research.