Tra le correnti più importanti della storia dello studio della mente è impossibile non annoverare la psicologia della Gestalt.
Agli inizi del Novecento questa nuova corrente, detta Gestaltpsychologie (“psicologia della forma”), aprì la strada ad un nuovo modo di considerare la realtà secondo un’ottica che oggi appare quasi banale, ma che all’epoca venne considerata una vera e propria rivoluzione.
Il suo fondatore, Max Wertheimer, fu il primo a portare avanti i lavori di un filone di studio che avrebbe contribuito in modo essenziale al progresso della “giovane scienza”.
La Gestalt: il tutto è più della forma delle singole parti
Gli studi della psicologia della Gestalt erano soprattutto inerenti alla percezione, così come alla esperienza soggettiva della realtà. Il pensiero della scuola era sintetizzabile nell’assunto per cui “il tutto è più della somma delle singole parti”.
Secondo questo criterio, sarebbero le singole parti di un insieme a fornire a quest’ultimo il suo significato. L’esempio più classico è quello delle note musicali: ognuna di esse ha un proprio significato a prescindere dalla melodia che viene composta. Ma la melodia stessa, senza le singole note, di fatto non può esistere.
Portando avanti l’idea (oggi certezza) che l’occhio umano funzionasse diversamente da una semplice macchina fotografica in grado di immortalare la realtà esattamente come essa appariva, i gestaltisti proponevano che la mente, tutt’altro che passiva di fronte ad un’immagine o un evento, organizzasse attivamente le informazioni ricevute; questo, in modo da comporre un’unica entità dotata di un significato che andasse oltre gli elementi che la componevano.
Gli esperimenti e le regole essenziali della psicologia della Gestalt
Per provare sperimentalmente la propria visione, i gestaltisti partivano dal presupposto secondo cui l’oggetto di studio della psicologia dovesse essere ciò che si presenta all’individuo: un approccio fenomenologico per cui il dato fondamentale era rappresentato da ciò che l’individuo percepiva spontaneamente, in modo diretto.
Non badando alla loro introspezione e senza istruzioni da parte dello sperimentatore, ai soggetti veniva richiesto di fornire informazioni su ciò che vedevano senza nessun tentativo di intellettualizzazione.
Fu proprio Wertheimer, nel 1911, ad utilizzare una lampada stroboscopica che inviava dei lampi di luce su un oggetto in rotazione per dimostrare la differenza tra un movimento effettivo ed uno percepito.
Quando la frequenza di rotazione dell’oggetto e quella della luce erano gli stessi, l’oggetto appariva fermo ai partecipanti; modificando la frequenza della lampada, invece, lo stesso oggetto cambiava (a livello percettivo) la sua rotazione. In maniera del tutto inconsapevole, l’essere umano utilizza quindi degli schemi (scelti in base all’apprendimento, alla condivisione e all’imitazione) per organizzare la percezione, così come il suo pensiero.
Ad oggi, i lasciti della psicologia della Gestalt rimangono ancora utili non solo in ambito terapeutico, ma anche per spiegare fenomeni visivi come alcune illusioni ottiche e nell’arte del design.
In particolare, secondo la Gestalt esisterebbero alcune regole essenziali che spiegherebbero fenomeni come la tendenza di chiunque a completare figure incomplete e la percezione del movimento dove questo non è presente:
- Buona forma: la struttura percepita è sempre quella più semplice;
- Prossimità: gli elementi vengono raggruppati in funzione delle distanze;
- Somiglianza: si tende a raggruppare gli elementi simili;
- Buona continuità: si tende a percepire gli elementi come appartenenti ad un insieme coerente e continuo;
- Destino comune: quando gli elementi sono in movimento, vengono raggruppati quelli con uno spostamento coerente;
- Figura-sfondo: gli elementi di una zona possono essere interpretati sia come oggetto sia come sfondo;
- Movimento indotto: uno schema di riferimento formato da alcune strutture consente la percezione degli oggetti;
- Pregnanza: se gli stimoli sono ambigui, la percezione dipenderà dalle informazioni prese dalla retina.
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