Computing machinery and intelligence è il nome dell’articolo pubblicato da Alan Turing nel 1950 che poneva come suo obiettivo quello di comprendere se esistesse un metodo per chiarire se una macchina fosse in grado di pensare.
Per molti, il test di Turing rappresenta uno dei primi fondamentali passi che hanno portato con il tempo a quella che oggi chiamiamo intelligenza artificiale: una suggestione che non solo è diventata realtà, ma si presenta anche come un elemento permeante la nostra vita di tutti i giorni.
Come funziona il test di Turing?
Quando parla di macchina intelligente, Turing fa riferimento ad uno strumento artificiale che sia capace di collegare idee tra loro e comunicarle all’esterno producendo espressioni che possiedano significato.
La base di partenza, per Turing, consiste nel “gioco dell’imitazione”. I partecipanti consistono in un uomo (A), una donna (B), ed una terza persona (C).
C è tenuto separato da A e B, e il suo obiettivo è quello di capire quale tra i due è una donna e quale è un uomo. Le risposte fornite dall’uomo e dalla donna, ovviamente, vengono consegnate a C in un formato che non permetta a quest’ultimo di acquisire informazioni dalla grafia o dalla voce degli altri due partecipanti.
Il compito di A, in ogni caso, è quello di provare ad ingannare C, mentre B cercherà invece di portarlo alle giuste conclusioni.
Sostituendo A con una macchina, sarà quindi possibile verificare la differenza tra il primo test (comprendente tutti esseri umani) ed il secondo in cui è avvenuta la sostituzione.
Secondo Turing, se la percentuale di volte in cui C indovina è simile nei due casi, allora la macchina (A) può essere considerata intelligente, in quanto non distinguibile da un essere umano.
Una critica al test di Truing: la stanza cinese di John Searle
Nel corso degli anni, ovviamente, il test è passato per numerose critiche che lo hanno reso meno generico ed impreciso. In particolare, è giusto menzionare la versione di John Searle, denominata Stanza cinese.
Differentemente dal test di Turing, in questo caso un umano interagisce con una macchina senza saperlo, ed il suo compito è proprio quello di giudicare se il suo interlocutore sia artificiale oppure un suo simile.
Nell’esempio della stanza cinese, Searle si sostituisce alla macchina, ed immagina di interloquire con una persona madrelingua cinese. Un libro con delle istruzioni per utilizzare i simboli della lingua cinese potrebbe, con il tempo, permettergli di seguire un “programma” che gli consenta di rispondere con determinati simboli a quelli utilizzati dall’interlocutore.
Anche se questo potrebbe far si che Searle venga considerato come madrelingua cinese, le sue risposte non dipenderebbero da una effettiva comprensione di ciò che sta facendo o che sta dicendo, ma piuttosto dall’esecuzione di una serie di istruzioni
In sostanza, il significato che diamo alle parole, determinato dalle esperienze pregresse e dall’intenzionalità, renderebbe troppo complesso per qualsiasi macchina il compito di gestire degli elementi che possono essere manipolati dalla stessa, ma non compresi da un punto di vista semantico.
di Daniele Sasso
fonti:
- Searle, J. R., & Willis, S. (1984). Minds, brains, and science. Harvard University Press.
- Turing, I. B. A. (1950). Computing machinery and intelligence-AM Turing. Mind, 59 (236), 433.
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