In questi ultimi mesi è tornato all’onore delle cronache l’utilizzo dei raggi ultravioletti per sterilizzare gli ambienti da virus e batteri, fra rapporti di ricerche e applicazioni autentiche ma purtroppo anche la solita quantità di fakenews o fraintendimenti.
In realtà l’effetto sterilizzante dei raggi UV è noto da tempo e oggetto di continua ricerca. Già nel 2012 il National Institute of Standards and Technology (NIST), agenzia governativa americana con sede a Gaithersburg nel Maryland, aveva pubblicato una ricerca che ne illustrava i potenziali benefici nella potabilizzazione dell’acqua.
l’Istituto non ha mai smesso di fare ricerca, ma questo era il momento opportuno per diffondere la documentazione acquisita
Era tuttavia necessario un più approfondito lavoro riguardo i metodi e gli strumenti usati per l’emissione dei raggi UV e sugli effetti sui microrganismi patogeni di cui ci si vuole liberare. La pandemia da Covid-19 ha spinto i ricercatori dell’istituto ad accelerare il processo di studio e soprattutto diffusione dei risultati affinché tutti ne possano beneficiare, sotto diversi punti di vista.
L’esperimento del 2012 fu condotto perlopiù utilizzando una lampada che emette raggi UV a una singola lunghezza d’onda, 254 nanometri (i raggi UV, non visibili all’occhio umano, si estendono fra i 200 e i 400 nm); dopo di allora, altri enti e istituti di ricerca preferirono focalizzarsi sull’uso di lampade policromatiche, in grado di emettere UV su svariate frequenze allo stesso tempo, in particolare quelle basse al di sotto dei 230 nm. Ciò si rivela efficace nel colpire i virus, ma non è semplice quantificare tale efficacia e capire esattamente i meccanismi dietro il fenomeno.
Al NIST hanno quindi ritenuto importante indagare con precisione sugli effetti apportati da un ventaglio il più ridotto possibile di lunghezze d’onda in rapporto a ciascun specifico agente patogeno.
Ma c’erano dei problemi di natura tecnica nel realizzare una strumentazione adeguata, in grado di generare radiazione ultravioletta a una precisa lunghezza d’onda in modo controllato.
Il lavoro di affinamento della tecnologia di misurazione degli effetti sta già portando dati significativi
Le ricerche hanno dato i frutti sperati e i tecnici del NIST sono riusciti a mettere a punto un laser regolabile in grado di emettere una specifica radiazione nel range fra i 210 e i 300 nm con una precisione inferiore a un nanometro.
I risultati si rivelano a volte sorprendenti: se alcuni germi sono via via meno sensibili alle radiazioni UV man mano che la frequenza diventa più bassa, in particolare sotto i 240 nm, per altri non si rileva alcuna sostanziale differenza e i raggi restano efficaci anche a frequenze molto basse.
Conoscenze specifiche e precise sulle frequenze necessarie per eliminare un determinato batterio o virus sono preziose per rendere il processo di purificazione dell’acqua sempre più efficiente e affidabile, ma la gamma di applicazioni è assai più ampia.
Dagli ospedali agli autobus, una pratica già in uso
Già oggi sono in uso in varie parti del mondo dispositivi automatici, veri e propri robot, realizzati per sterilizzare superfici solide per esempio, ma non esclusivamente, in ambito ospedaliero. Ciò che manca sono standard ben definiti per questa tipologia d’intervento e il sistema sviluppato dal NIST potrà tornare utile anche in questi casi, aiutando a determinare quale lunghezza d’onda e a quale intensità potrà essere efficace su un determinato germe su un determinato materiale solido.
Naturalmente il NIST non è l’unico centro di ricerca impegnato in questo senso, ma uno strumento affidabile come il laser modulabile da loro messo a punto potrà aiutare a comprendere meglio anche aspetti tutt’ora controversi sul coronavirus responsabile della Covid-19 e agenti patogeni simili, inclusa la portata dell’influenza della radiazione solare nel suo insieme sia sui virus posati sulle superfici che eventualmente sospesi in aerosol.
I risultati della ricerca sono stati pubblicati sulla Review of Scientific Instruments.
Di Corrado Festa Bianchet