Cattivi si nasce o si diventa? L’effetto lucifero descritto da Philip Zimbardo nel 2007 pone come suo presupposto proprio questa domanda inerente all’influenza del contesto sull’aggressività degli individui.
La tesi dello psicologo statunitense sottolinea come l’ambiente sia fondamentale nel determinare le condotte individuali, spostando ancora una volta l’ago della bilancia verso le esperienze soggettive rispetto alla genetica e al temperamento presente alla nascita.
L’esperimento della prigione di Stanford
Anche se il libro e il costrutto coniato da Zimbardo risalgano solo ai primi anni 2000, le conclusioni erano già state elaborate grazie ad un esperimento svoltosi negli anni ’70, divenuto famoso come “l’esperimento carcerario di Stanford”.
I 24 partecipanti vennero divisi dallo psicologo in due gruppi diversi: guardie e carcerieri. Attraverso un questionario, i soggetti erano stati selezionati in modo da ottenere un campione che, se pur piccolo, risultasse composto da individui equilibrati e poco attratti da comportamenti devianti.
Dopo la divisione in gruppi, i soggetti furono rinchiusi nella prigione di Stanford: mentre i prigionieri venivano trattati come tali (con tanto di divise e regole molto rigide da rispettare), le guardie, munite di uniforme, venivano istruite per esercitare pieno controllo sull’altro gruppo, ed erano equipaggiate anche con manette, fischietto e manganelli.
L’abbigliamento dei due gruppi rappresentava un espediente per favorire la loro deindividualizzazione all’interno del gruppo. A tal proposito, proprio la teoria della deindividuazione di Gustave Le Bon aveva già studiato l’effetto che questa potesse avere sulla consapevolezza degli individui i quali, trovandosi all’interno di un gruppo col quale si sentivano fusi, erano più propensi a comportamenti antisociali e alla perdita della loro identità.
L’esperimento, in ogni caso, finì male per i partecipanti e bene per Zimbardo. Già dopo solo un paio di giorni, i primi episodi di violenza di rivolta portarono le guardie a comportamenti al limite del sadico, costringendo i prigionieri a umiliarsi pulendo le latrine e cantando per non essere aggrediti.
Dopo meno di una settimana e a seguito di un tentativo fallito di evasione, i prigionieri iniziarono a manifestare sintomi tipici dei deficit emotivi e sottomissione verso le guardie, le quali a loro volta non solo non smettevano di vessarli, ma soprattutto sembravano provare un certo gusto nel farlo.
I ricercatori dovettero interrompere lo studio per garantire l’incolumità dei partecipanti, ma il risultato era già stato eclatante: la deindividuazione aveva portato a sottomettere la propria responsabilità personale, e i soggetti avevano dimostrato come il contesto potesse mutare persone normalissime in elementi totalmente fusi con il gruppo e con i suoi obiettivi.
Le accuse a Zimbardo
Negli anni, in ogni caso, le critiche mosse a Zimbardo furono molteplici. Le interviste ai partecipanti condotte negli anni seguenti portarono alla luce alcune possibili forzature delle variabili sperimentali (come ad esempio le istruzioni alle guardie di forzare la situazione per esasperare i prigionieri), nonché l’impossibilità effettiva di lasciare l’esperimento durante il suo corso.
L’esperimento di Stanford rappresenta uno tra i più controversi mai eseguiti, ma ancora oggi è impensabile analizzare le evidenze conosciute sul comportamento aggressivo senza farvi riferimento. Nonostante la metodologia non propriamente scientifica, lo studio di Zimbardo può essere considerato ancora oggi una delle evidenze più citate nello studio dell’aggressività umana.
Sulle vicende avvenute è stato scritto tanto, e sono state prodotte anche diverse pellicole. La più recente è Effetto Lucifero (The Stanford Prison Experiment), film di Kyle Patrick Alvarez del 2015.
fonti:
Philip G. Zimbardo, L’effetto Lucifero. Cattivi si diventa?, Raffaello Cortina, Milano 2008
Resnick, B. (2018). The Stanford Prison Experiment was massively influential. We just learned it was a fraud. Vox.
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