21 Novembre 2024
Manufatti ossei dell'uomo di Neanderthal

I manufatti recuperati in cinque diversi rinvenimenti in due siti nella Francia meridionale sono un esempio del livello della tecnologia neandertaliana di oltre 40000 anni fa (Credit: Università della California Davis)

L'analisi approfondita di manufatti risalenti a 40-50 mila anni fa rivela il livello tecnologico sopraffino raggiunto dall'uomo di Neanderthal.

L’Uomo di Neanderthal convisse a lungo col nostro antenato diretto, l’homo sapiens, ma negli ultimi anni il progredire della ricerca scientifica ha portato a doverci ricredere su molti aspetti che davamo per scontati, spesso per una forma di pregiudizio più o meno inconscia.

L’ampia diffusione e la convivenza con l’homo sapiens

Questo nostro cugino si diffuse nel continente eurasiatico in tempi antichi, inclusa l’intera penisola italica da nord a sud: dalle grotte del Monte Fenera in Piemonte a quelle di Altamura in Puglia, passando per la Valle dell’Aniene a Roma. Scoperte degli ultimi cinque anni ne hanno retrodatato enormemente la presenza in questi siti, tanto che ora si ritiene i Neanderthal (o i loro antenati) abitassero l’area dell’attuale capitale già almeno 250.000 anni fa mentre a un dente ritrovato nel vercellese è stata attribuita una datazione pari a 300.000 anni.

Ma oggi sappiamo anche che, lungi dall’essere un bruto animalesco, se paragonato all’homo sapiens, l’homo neanderthalensis vantava una tecnologia raffinata, per i tempi, e un’ulteriore conferma giunge dall’analisi di strumenti rinvenuti nel sud della Francia, nei siti di Pech-de-l’Azé e Abri Peyrony.

Uno strumento ancora in uso in campo artigianale

Sarebbero stati proprio i Neanderthal a inventare uno strumento per la lavorazione delle pelli, il lisciatoio, usato per renderle impermeabili e ottimizzarle per successive manipolazioni, e anche renderle lucenti.

Questi antichi ominidi usavano allo scopo delle ossa, tipicamente costole, ma non è facile identificare identificare l’animale da cui provengono proprio a causa del logorio e della consunzione derivanti dal lungo utilizzo cui venivano sottoposti. I ricercatori ritengono addirittura gli antichi conciatori conservassero uno sorta di strumento di fiducia, come oggi è comune avere un cacciavite preferito pur avendone numerosi a disposizione.

Alta tecnologia per studiare i reperti senza danneggiarli

I ricercatori hanno fatto uso dello spettrografo di massa applicando la tecnica denominata ZooMS, Zooarchaeology by Mass Spectrometry. Il modo in cui le molecole analizzate si frammentano da luogo a schemi noti agli scienziati, permettendo così di identificarne la natura.

Solitamente questo tipo di analisi implica la distruzione di una parte del prezioso materiale recuperato, ma una sofisticata tecnica sempre più in uso negli ultimi anni basata sull’effetto triboelettrico, ovvero la generazione di cariche elettriche fra due materiali (in questo caso plastica o acetato e il collagene delle antiche ossa), ha permesso di condurre un’indagine non invasiva, preservando al massimo i preziosi reperti.

I risultati indicano che i Neanderthal utilizzavano quasi esclusivamente costole di bovini (come il bisonte o l’ormai estinto uro) come strumento per la concia, mentre di solito non lo erano le ossa di cervo, che pure costituiva un pasto comune per le comunità dell’epoca. Nonostante l’abbondanza di di cervi, dunque, preferivano raccogliere e conservare le più grosse e rigide costole di bovino ogniqualvolta se ne presentasse l’occasione, poiché ritenute più adatte alla lavorazione della pelle, con minori rischi di danneggiarne le fibre.

Un’ulteriore indicazione che i Neanderthal sapevano esattamente cosa stessero facendo, mostrando un livello tecnologico che certo non si confà al pregiudizio che li voleva più grossi scimmioni che raffinati costruttori di manufatti, ruolo fino a non molto tempo fa riservato all’homo sapiens.

Il lavoro ha coinvolto ricercatori dell’Università della California Davis (UC Davis), dell’Università di Copenhagen, dell’Istituto Max Planck di antropologia evolutiva di Lipsia e dell’Università di Leiden, Olanda. La ricerca è apparsa l’8 maggio 2020 su Scientific Reports.

Di Corrado Festa Bianchet

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