Pregiudizi: accettarli per riconoscerli e combatterli
Nell’epoca in cui chiunque può far conoscere la propria opinione con un semplice click, la tendenza alla discriminazione che si annida nell’animo umano sembra essere più lampante che mai. E mentre è facile arrivare alla conclusione che questa vada condannata in ogni sua forma, un discorso a parte va fatto per il pregiudizio, la forza progenitrice da cui le forme compiute di razzismo di dipanano.
Ma da cosa nasce questa attitudine a discriminare l’altro? E possiamo controllarla?
Il pregiudizio, nella sua accezione più classica, può essere inteso come la componente affettiva di un atteggiamento; esso consiste in un’opinione aprioristica, solitamente negativa, verso persone, gruppi o altri oggetti sociali.
Dei tanti esperimenti che si sono occupati di indagare il modo in cui è possibile sviluppare pregiudizio, basti citare quello del 1971 di Tajfel sui gruppi minimali: la semplice divisione in gruppi, basata sulla scelta del pittore preferito (Kandiskij o Klimt), bastava per garantire che ogni soggetto dimostrasse favoritismo per il proprio gruppo (ingroup) rispetto all’altro (outgroup), e scegliesse di differenziarsi il più possibile da quelli che venivano immediatamente percepiti come rivali.
Sembra difficile quindi dire che il pregiudizio sia qualcosa di evitabile. Anzi, sarebbe insito nella natura umana, programmata per difendere il proprio gruppo di appartenenza dagli “esterni”.
A tal proposito, la sociologa Patricia Devine definisce gli stereotipi come processi che si attivano inconsciamente, automaticamente.
In un esperimento da lei condotto, a soggetti con basso e alto livello di pregiudizio venivano presentate subliminalmente 100 parole. Alla metà di loro veniva mostrata una lista contenente circa l’80% di parole connesse allo stereotipo di afroamericano (negro, pigro, blues, Africa, ghetto). All’altra metà invece veniva presentata una lista con solo il 20% di parole legate allo stereotipo. Il compito era di formarsi l’impressione di una persona sulla base della descrizione (scritta) di una serie di azioni da essa compiute. Il risultato fu che i soggetti esposti a una maggiore proporzione di stimoli connessi agli afroamericani avevano valutato il soggetto negativamente, come più aggressivo rispetto agli altri.
Questa potrebbe sembrare ancora una volta la prova che per l’essere umano il pregiudizio sia inevitabile. Ma questa non è tutta la verità. Se è impossibile controllare il fatto che il pregiudizio faccia capolino nella nostra mente, ciò che davvero può fare la differenza è il controllo su di esso.
Sono soprattutto quelle che vengono definite come funzioni superiori esecutive, descritte la prima volta da Lurja (ovvero le capacità di ragionamento, e di direzionare il pensiero e l’azione ad uno scopo consapevole), a poter svolgere un ruolo chiave. La capacità di frenare comportamenti istintuali, derivati per lo più dalla paura del nuovo e dell’incongruenza, stanno alla base del non cadere nel vortice della denigrazione, il quale paradossalmente sta diventando uno stereotipo comune.
Ovviamente, a questo si accompagna la propria esperienza. Non è un caso che il contatto con diverse culture sia in grado di minimizzare anche le differenze percepite con un gruppo che non ci appartiene.
Secondo l’ipotesi del contatto di Gordon Allport, un contatto favorevole porta ad una migliore conoscenza degli altri, conducendoci alla possibilità di giudicarli non in base a stereotipi. Un esplicito sostegno sociale e istituzionale, un’interdipendenza positiva, l’uguaglianza dello status o uno scopo comune sovraordinato sono tutti elementi in grado di permettere il superamento delle barriere.
Quella del controllo degli stereotipi è una strada che implica sforzo maggiore, soprattutto dal punto di vista cognitivo, ma che permette di conoscere meglio chi ci sta intorno, e probabilmente anche noi stessi.
di Daniele Sasso